Guaritori e medicina popolare
A cura di Luciana Nora
Il percorso di ricerca ha avuto inizio nel 1980 ed è stato ricalcato nel 1990 e nel 1999 in ragione dell'elaborazione di due tesi di laurea: Giovanna Guerzoni "Tra natura e cultura: le pratiche terapeutiche nella medicina popolare", Università degli Studi di Bologna - Facoltà di Magistero, 1990/'91; Marco Vaccari, "I guaritori della campagna modenese", Università degli Studi di padova, Facoltà di Psicologia, 1999/ 2000.
In tutti e tre i percorsi si è proceduto alla raccolta di testimonianze orali regolarmente trascritte e poste alla consultazione.
Inoltre i materiali sono stati utili all'elaborazione di una terza tesi di laurea di Antonella Bartolucci: Tecniche terapeutiche tradizionali nell'area del Reggiano, Università degli studi di Bologna - facoltà di Lettere e Filosofia - Corso di Laurea in Storia Orientale.
Nella prima campagna di interviste si è proceduto alla documentazione fotografica dei vari rituali e, per quello assai complesso inerente il "levare al simiot" (atrepsia infantile) è stato girata una video/intervista ragionata dal titolo omonimo al rituale.
Guaritrice Amabilia - Segnatura delle storte
Foto di Giuseppe Lodi - databile 1981
Ricerca e testo di Luciana Nora
La medicina popolare, mutata, ridotta a spettro della sua essenza, e' sopravvissuta continuando ad agire nella semiclandestinità bisbigliante e discreta, soprattutto nelle frazioni rurali, in ognuna delle quali si trovano almeno una o due figure di guaritori che continuano ad agire come una sorta
di servizio sociale rivolto, si badi bene , anche al centro urbano.
L'argomento guaritori evoca almeno due tipi di pensiero: magia nera e, o, magia bianca che, compresenti o no, nella mentalità' comune si configurano come qualcosa di demonico e stregonesco.
Paolo Riccardi, parlando della segnatura delle slogature, in modenese detta averta, peculiarità riscontrata in tutte le guaritrici presenti sul territorio carpigiano, diceva tra l'altro: "Cosi' ad esempio, una vecchia di mia conoscenza, in fama quasi di strega, compiva l'averta…." E piu' avanti: "Un mio colono che aveva una bestia bovina zoppa, le fece fare l'averta a mezzo di una povera vecchietta che andava elemosinando di casa in casa e che , senza essere strega, non era certo ….in odore di santità….".Ed ancora il Dott. Ettore Nicolini di Carpi ,nel 1907, in un suo saggio, scriveva: "[…] In che cosa consiste questo far segnare? Anche qui sono per lo più certe donne, fattucchiere, le quali a pagamento, si portano presso il malato, fanno un segno della croce sulla parte ammalata…. pronunciando parole inintelligibili (qui sta la malia) e facendovi colla mano in aria, segni e movimenti specialissimi…".
Guaritrice Bianca Gallesi. Segnatura dei vermi.
Foto di Giuseppe Lodi - databile 1981
La ricerca in questo ambito culturale è estremamente significante riguardo a quanto l'impatto tra la cultura pre-cristiana e cristiano cattolica debba essere stato violentemente subito in special modo dalla donna che, da espressione positiva dell'imponderabile quale era, viene trasformata in veicolo del demonio, quindi sede di ambiguità a cui addossare la responsabilità della sofferenza umana verso cui, fino a quel momento, essa aveva tentato invece di porsi quale presidio.
Così dice Jules Michelet: " Per mille anni l'unico metodo del popolo fu la strega… la massa di ogni stato, e si può' dire il mondo, non domandava parere che alla Saga , o donna saggia. Se non riuscivano a guarirli, la ingiuriavano, le davano della strega. Ma in generale , per una riverenza simile al timore, la chiamavano Buona donna, o Bella donna, con lo stesso nome che si dava alle fate…" Ed anche il momento cruciale del parto, attraverso cui nella donna potrebbe riemergere prepotentemente un grande senso di potenza, tale da predominare e vincere sul dolore , si trasforma in primo luogo, come forma di espiazione quindi diventa mortificante , avvilente oltre che doloroso. Significativi a questo proposito appaiono gli atti di un processo del Tribunale della SS. Inquisizione del marzo 1734 tenutosi a Modena contro la persona di Anna Astolfi di cinquant'anni, rea confessa di scacciare "il mal delle doglie" attraverso la seguente formula :" In nome di Dio sia e della Vergine Maria, vi metta prima la sua man che io la mia, in nome del Padre del Figlio e dello Spirito Santo, sto male non passi da qui d'innanzi. Prego Dio e la dolce Vergine che se son doglie, se ne vadin via." Ad accusarla sono le stesse donne che a lei sono ricorse, le quali non hanno saputo sottrarsi al senso di colpa derivante dalla trasgressione.
E' rilevante il fatto che ancora nel 1734 , seppure limitatamente, potesse essere concepibile partorire senza dolore mentre attualmente, nelle tante testimonianze orali raccolte, non e' stato dato di trovare traccia di simile memoria.
Patetica appare la formula che suona quasi come un atto autodifesa da parte di questa donna , teso probabilmente a salvaguardare la possibilità di continuare ad agire, in cui essa pospone in primo luogo il potere di cui la sua persona è investita a quello di Dio nel far cessare quel "male delle doglie" che Dio stesso ha imposto come tributo per l'originale trasgressione.
Il salvaguardarsi la possibilità di agire doveva e continua a essere molto importante, poiché rientra nelle regole imposte dal lascito l'obbligo di agire là dove ve ne sia bisogno, anche di fronte a difficoltà, senza chiedere nulla, ma anche senza rifiutare ciò che viene offerto.
E' molto importante per il guaritore cedere il lascito a qualcuno che continuerà oltre lui; questo può essere fatto il mattino o la sera della Vigilia di Natale (solstizio invernale - da un vecchio sole ne nasce uno nuovo") o all'approssimarsi della fine e la scelta del successore non può essere affidata al caso.
Guaritrice Eloide Zanasi. Segnature storte.
Foto di Giuseppe Lodi - databile 1981
Quasi sicuramente questo fattore ha prodotto nei guaritori inquisiti un atteggiamento di difesa che può essere consistito nel trasformare od inventare le formule, facendo spostare l'attenzione dal contenuto simbolico a quello formale; una sorta di beffa a quanti sono stati per secoli ad almanaccare sul significato di formule sul tipo di queste : "Vuladga, vuladga / al venerdè staca / Al sabet va a messa/ Domenica sèca!//" San Giorg' benedett/ fa pasér sti bigatt/ a ste pover fanciulett//". A questo proposito la dice molto lunga la testimonianza reale di una guaritrice residente a Cantone di Gargallo di Carpi, Argia Guizzardi, depositaria di un lascito che, probabilmente, non ha mai subito il vaglio o non è mai sottostato all'intimidazione di nessuna inquisizione e che, per ora, è l'unico caso riscontrato sul nostro territorio: "Nel segno non esiste niente; né santo, né niente…Non è roba che riguarda i santi. Mia nonna mi ha sempre detto: - I Santi sono in chiesa, la preghiera va detta se uno la vuole dire, ma per questo ( intende il segnare ) non usare le preghiere; usa solo il segnale e basta…- Perché mia nonna quando me lo ha spiegato diceva: - Questa non è roba del Signore, non è roba di niente; questa è roba particolare per fare queste cose… - …diceva che la religione è una cosa e il segno un'altra…".
Eppure anche nel doversi riciclare e nel verificare successivamente l'uguale successo nel rapporto con il sofferente, deve stare la forza per cui queste figure hanno continuato ad esistere e a moltiplicarsi. I meccanismi attraverso cui i guaritori hanno continuato ad attingere forza nonostante tutto, devono essere molto simili a quello descritto da un'anziana guaritrice di Carpi che, entrando nel ricovero, credeva di dover cessare le sue pratiche e, peraltro, non aveva più a disposizione gli oggetti che fino a quel momento le erano serviti per mettere in atto il rituale. Di fronte alle continue richieste di aiuto, ha reagito in questo modo: " … non avevo più il pentolino ed allora mi sono detta: - Provo a dire quello che c'è da dire…- e dopo mi hanno detto che stavano bene ed allora ho pensato: - Vado avanti alla mia maniera!…
Analoga è la testimonianza di un'altra guaritrice di Carpi: "( riguardo al "Fuoco di Sant'Antonio")…ho provato da sola … C'era un signore che abitava in una casa qui vicino, aveva il fuoco di Sant'Antonio nella schiena… è venuta e mi ha detto:- Mio fratello dice che lo sfogo vuole segnato… - - Guardi che mia suocera mi ha insegnato a segnare solo le storte; però, se vuole che provi!? - Infatti l'ho segnato ed è stato benissimo. Dopo c'era una signora nella casa più avanti che aveva lo sfogo in fronte e soffriva di mal di testa… si è fatta segnare ed è stata benissimo… poi è venuta la suocera di mio figlio… Ho detto: - Dato che questo male deve essere segnato, provo! - E' stata una mia scoperta…"
Nel trascrivere la registrazione delle testimonianze orali è impossibile riportare anche la carica emotiva espressa nelle frasi, ma quei: - Vado avanti alla mia maniera - ed: - E' stata una mia scoperta -, esprimono un senso di acquisita potenza, ad un passo forse dal giusto percorso verso l'essenza del rituale; essenza che risiede in primo luogo nel riuscire ad agire sul fattore emotivo individuale, soggettivo, più o meno razionalizzabile, in grado di controllare o no le sensazioni dolorose e le manifestazioni somatiche.
Adelina Fancinelli segnatura della storta
Foto di Giuseppe Lodi - databile 1981
E' prevalentemente sul dolore che si interviene con " il segno". Infatti una delle guaritrici intervistate, riguardo " Il Fuoco di Sant'Antonio" , dice: "…Quando vengono mi fa piacere sentire dire: - Era tanto che soffrivo che e questa notte ho riposato. - Non la prima giornata, ma la seconda, dicono che non soffrono più come prima. Non è che guariscono subito in tre volte che vengono qui; no, se " la tirano" a lungo ( la malattia )…mia madre diceva così: - Lo devi segnare con tante croci, però stai più alla larga di dove c'è il male, perché il male non deve uscire da dove fai il segno tu… deve restare dentro… non soffrono, dopo va via il dolore, ci diminuisce…- Ci sono di quelli che vengono e sono tutti rovinati, perché hanno delle croste, ci viene la vescica…invece segnando, il dolore non lo sentono più…" E quando gli effetti di questi rituali sono positivamente sensibili, anche se apparentemente inspiegabili e di nuovo avvolti in una aura magica, non può che esservi un riconoscimento che sovente, soprattutto all'occorrenza, diventa pubblico, quindi più o meno direttamente, teso alla conservazione di queste pratiche. Così come deve essere successo in questo caso riportato da Eleoide Zanasi: "(Un incredulo) è venuto da me con il dito gonfio: - Ma perché vuoi che tu non ci credi?! Non ti segno. Se dici che ci credi un poco alle bugie che tu dici che io dico, ti segno; altrimenti non ti segno… Devi venire tre mattine in fila; se tu vieni conta. Se domani non vieni non conta niente. - E' venuto per tre mattine e mi ha detto: - Non ci credevo ma bisogna che ci creda… - Fai quello che vuoi. Se ci credi è così… -
Guaritrice Ida Vegis. Segnature storte.
Foto di Giuseppe Lodi - databile 1981
Riconsiderando ancora le testimonianze citate, non si possono non notare le strettissime analogie tra i meccanismi comportamentali tra guaritore - sofferente e medico - paziente; in primo luogo, se è vero come è unanimemente sostenuto dalla medicina ufficiale, che la volontà di superare la malattia, tradotta in collaborazione attiva da parte del malato, è tra i fattori determinanti al successo terapeutico, sicuramente questo fattore è presente nel rapporto guaritore - sofferente, anzi, se nonostante il diffuso scetticismo rispetto a queste pratiche, una persona vi ricorre ugualmente, esprime con forza la volontà di superare la malattia. Il tributo che per lo più è di fatto simbolico, acquisisce di fatto valore di riconoscimento al rituale.
Il guaritore, inoltre, assume il ruolo di oggetto del transfert. Qualche volta nella guarigione rientra anche l'effetto farmacologico più o meno placebo.
Chiaramente il trattare questo fenomeno non è teso alla riconsiderazione in chiave nostalgica di antiche tradizioni, ma piuttosto, a riaffermare il bisogno di ogni individuo ad essere salvaguardato nella propria integrità soggettiva e collettiva.
Attualmente, riguardo alla salute, possiamo contare su un progresso tecnologico e scientifico considerevoli, ma qualsiasi persona ha bisogno di interpretarsi nel suo rapporto con il mondo e non solo in codici tecnici e scientifici spesso incomprensibili. Quando questo rapporto diventa insostenibile, poiché richiede alla persona, oltre che di frantumarsi in fegato, intestino, cranio, cervello, ecc… anche una autoesclusione contraddittoria ( lasciami fare, ma aiutami - da parte del medico ), allora, effettivamente, si giustifica il bisogno sempre più frequente del ricorso a medicine alternative.
E la cosiddetta "regressione culturale" , dovuta ad una resistenza al cambiamento, non è soltanto un fenomeno legato a condizioni sociali di subalternità ma, sempre più spesso, è di élite.
Se a cominciare dalla fine del '700 fino agli inizi di questo secolo, l'essere assistiti da un medico con le "lenti cliniche" è stato un tratto di distinzione sociale per le classi alte e medie rispetto ad un proletariato e sottoproletariato che, per indigenza economica o ignoranza, di fatto erano abbandonati a loro stessi, attualmente i termini della questione sono mutati.
Paradossalmente, quando la possibilità di essere studiati da "lenti cliniche" e trattati di conseguenza, è pressoché estesa a tutti, è proprio una élite che, riconsiderando i 200 anni di esperienza, si stacca dai ranghi e, senza rinnegare scienza e tecnologia, comincia a porsi quegli interrogativi che, né scienza, né tecnica, sono in grado di affrontare da sole.
Atrepsia infantile o mal dello scimmione, popolarmente nominato come Simiott
Ricerca ed elaborazione di Luciana Nora
Guaritrice Bianca Gallesi. Segnatura del "Simiot".
Foto di Giuseppe Lodi - databile 1983
Dal nastro n. 15 della ricerca: Riti di vita e di morte…[ p.18 II pista - q. 250 ] Inf. Bruna Arletti.
“[…] Dicevano [che la morte di un bambino dava lutto] "quand al tàca a gnir zò" [quando comincia a scendere], da un anno in poi, perché prima rimaneva quasi sempre in camera; il bambino era della mamma e del papà, non sembrava neanche della famiglia…”.
Il periodo di margine si risolveva, per il neonato, in una situazione di sospensione culturale che lo poneva in una posizione di ampio rischio. Non essendo ancora culturalmente, persona, non poteva usufruire delle difese tradizionali di gruppo e quindi venivano predisposte tutta una serie di norme comportamentali atte almeno alla difesa dei fenomeni di rischio che potevano compromettere non solo la vita o la sua qualità nell'immediato, ma anche in futuro. Se esistevano regole che riguardavano la donna ve n'erano altre, per il periodo suddetto, che riguardavano il bambino, come il non tagliargli le unghie o il non toccarlo sulla testa per timore di intaccare negativamente le capacità cerebrali.
Guaritrice Bianca Gallesi. Segnatura del "Simiot".
Foto di Giuseppe Lodi - databile 1983
“[…] Dicevano che a tagliare le unghie prima che avessero un anno diventavano ladri… pregiudizi…”.
Dal nastro n. 15 della ricerca: Riti di vita e di morte…[ p.11 -II pista - q. 101 ] Inf. Bruna Arletti.
“[…] Dicevano che fino ad un anno non si potevano tagliare le unghie, perché si accorciava la vista, ricordo che a volte avevano delle unghie! Che davano delle graffiate!… A volte le unghie venivano via da sole, ma non le tagliavano!”.
Guaritrice Bianca Gallesi. Segnatura del "Simiot".
Foto di Giuseppe Lodi - databile 1983
“[…] La crosta lattea era mancanza di pulizia, era una secrezione della testa, perché c'era il cervello aperto… e per paura di toccare il cervello, non li pulivano mai. Avevano paura per il cervello, che venisse molestato, ma era tutta sporcizia!…”.
Quasi sicuramente in questo periodo di sospensione desumibile dalle testimonianze, esistevano per il bambino tappe e superamenti di prove atti a dimostrare, attraverso reazioni basate quasi esclusivamente sulle capacità fisiche individuali, la sua idoneità a far parte del gruppo: fino a quel momento ci si poteva chiedere: - C'è o non c'è? –
Una di queste tappe si collocava a tre mesi, tempo necessario a rendere possibile un eventuale intervento, allorquando il bambino manifestasse serie difficoltà nell'adattarsi alla nuova vita extra/uterina, perché rifiutava l'alimentazione, oppure non assimilava, non cresceva, modificava peggiorativamente il proprio aspetto fisico e si decretava fosse affetto da “simiot ” [scimiotto].
Era questa una patologia specifica nei lattanti, un tempo assai frequente e conosciuta, scientificamente definita atrepsia, seppure fosse tanto in uso la denominazione popolare che nel vocabolario della lingua italiana Zingarelli, ha per sinonimo “mal dello scimmione”. Particolare la tristissima specificazione apparsa nel glossario del Manuale di avviamento sanitario, redatto dal prof. Fortunato Montuoro, edito nel 1947, in uso nei corsi per levatrice,: “Malattia infantile caratterizzata da un dimagrimento progressivo fino alla morte. I tedeschi con la loro scienza sono riusciti ad ottenere l’Atrepsia anche negli adulti nei Campi di Mauthausen, Dachau, Auschwitz, dove svolgevano accurate e serene ricerche scientifiche sul modo di uccidere i loro nemici.”
A quel punto la madre o, più spesso, qualcuno per lei in grado di farlo, metteva in atto un rituale idoneo a “levare” il “simiot”. Per comprendere il significato di questo rito che poteva attuarsi in forme diverse, è indispensabile fornire il quadro il più completo possibile delle testimonianze orali.
Guaritrice Bianca Gallesi. Segnatura del "Simiot".
Foto di Giuseppe Lodi - databile 1983
“[…] Quando un bambino è appena nato non si può curare, ci vogliono almeno tre mesi…[nastro 5 q. 259]… il bambino che ha “al simiot” al massimo deve essere segnato entro l’anno e mezzo… Sono andata da una famiglia che aveva un bambino di 30 giorni e ho detto. - Troppo poco, bisogna che ammucchi 50 – 60 70 giorni, che la pelle diventi un po’ robusta [nastro 5 q. 136] Quando un bambino ha addosso "al simiot" non cresce, anche se mangia non cresce, perché c'è sempre questa malattia che scarna, che tira su le sostanze… [nastro 5 q. 144] Si riconoscono perché si portano sempre le manine alla bocca, gli si arriccia tutta la fronte, piangono sempre, non riposano i bambini quando hanno questo male, come le scimmie non stanno mai quieti… [nastro 6 q. 004] perché questo male viene proprio dalla scimmia, può essere stata un'impressione, una paura che la mamma ha avuto...[nastro 5 q. 160] Per curarli adoperavamo del vino bianco e "dl'alvador" [lievito]… Facevamo il pane in casa, prendevamo un pezzettino di pane come sta in una mano, poi si facevano 9 pezzi, palline [nastro 6 q. 004] con una croce sopra, in mezzo [nastro 5 q. 160] che mettevo insieme ad asciugare per 24 ore, poi, quando erano venute belle secche, le tagliavo e le mettevo in bagno altre 24 ore nel vino [nastro 6 q. 004] ...poi ogni 24 ore si fa il bagno, questo per tre giorni. Il primo giorno si danno da bere al bambino tre cucchiaini di poltiglia… [nastro 5 q. 144] glieli davo da bere il primo giorno fin ché erano puliti… [nastro 6 q. 047] perché non è igienico, dopo averlo lavato, dargli di nuovo da bere… [nastro 5 q. 144] poi gli facevo il bagno per tre giorni in fila con quel vino li e il lievito. [nastro 6 q. 047] Il bambino era nudo, nudo… [nastro 6 q. 047] si passava la poltiglia per tutto il corpo, persino sotto i piedi ... mentre si fa il bagno al bambino si devono fare dei massaggi "all'arbuffa" [alla rovescia, verso l'alto, in senso circolatorio]… poi lo si lasciava cosi avvolto in una pezza bianca; dopo mezz'ora si vestiva senza lavarlo, gli veniva la pelle secca. Passati tre giorni lo si lava nell'acqua cotta [bollita col sale]… per evitare le infezioni che portano le nostre acque. Le nostre acque non si è mai sicuri che.siano ben pulite. [nastro 6 q. 085] [mentre lavavo il bambino] potevo dire una frase qualunque, potevo dire: - A't lev pastoun/va via simioun//- oppure: A't lev simioun/cress pastun//va via simioun/cress pasoun//… anche se non lo dice è lo stesso [- lei gliele diceva dice la figlia presente]…sono cose superficiali, ciò che conta sono il vino e la pasta ... [nastro 6 q. 078] del liquido che resta, si trova una pianta viva e la si innaffia col liquido: mentre crescerà la pianta, crescerà anche il bambino. Noi abitavamo in campagna, la pianta poteva essere anche un fiore, anche una rosa… Se cresce la pianta, cresce anche il bambino. [nastro 5 q. 464] [oggi che non si fa più il pane in casa] .si va dal fornaio a prendere la pasta cruda e ci se ne fa dare un etto, un etto e mezzo di pasta cruda, poi la si fa lievitare e dopo 24 ore la mette a bagno nel vino… [nastro 5 q. 479] non mi pagavano, mi davano qualcosa per regalo; delle volte c'erano donne che mi davano un franco, ma se andavo da un contadino mi poteva dare anche un pezzo di pane, [21] perché allora c'era della fame e ci si accontentava di tutto e se uno non poteva, si faceva per niente… [nastro 5 q. 197]
D. “C’era qualcuno che diceva che lei era una strega.?”]
R. “No, dicevano:- Sta attento, perché ti attacca "al simiot"!- Ed io rispondevo:- Ma io lo tolgo! Poi via, erano scherzi di campagna… [nastro 6 q. 096] Anche in "dal simiot" ci sono tre modi per toglierlo che io conosco, non come faccio io: c'è uno che sta a Gargallo, che era un uomo, glielo faceva nelle correnti d'acqua [contro corrente] [nastro 5 q. 227]; questo me lo dicevano ma io non ho mai visto. Mi dicevano. -Ma come fài tu? Vandelli, [questo uomo], li porta nel canale, contro acqua, perché "al putein al se schermisa"… altra persona li gettava nel forno dove si cuoce il pane… Io quei sistemi lì non li ho mai usati…”.
Dal nastro n. 7 della ricerca: La condizione contadina e l'esperienza del sacro Inf. Bianca Gallesi, anni 60.
“[…] [punto 1 q. 003] Saranno 15-16 anni che segno le persone, perché mia madre sono 13 anni che è morta…Mia madre mi ha insegnato a curare parecchie malattie: "il simiot", le storte, il "fuoco di S. Antonio", la risipola, le volatiche, i vermi... Per le storte ne vengono parecchi, mentre per "al simiot", se non c'è una suocera di una certa età, le donne di adesso non credono, credono poco. [q.032] Io vado al forno e prendo un etto di pasta da pane, poi la porto a casa e faccio tre palline, poi con il coltello alla rovescia [dalla parte opposta al taglio della lama] faccio la croce sulle tre palline, le faccio lievitare dal mattino alla sera poi ne prendo una e la metto a bagno in un bicchiere d'acqua: mia madre mi diceva così. Poi la mattina mi portano il bambino, loro vengono d'accordo, sempre in un giorno pari, non dispari, per esempio: martedì, giovedì, sabato... Quando vengono io prendo un pezzo di tela e faccio tre strisce, poi, per ogni mattina, uso una striscia a lavare il bambino… le strisce sono tre o quattro centimetri, meglio se sono di cotone, poi io lavo il bambino con questa acqua tiepida, perché si mette nudo, lo lavo e gli dico le parole che gli devo dire, poi, quando ho finito, per tutte le mattine gli dò un cucchiaino d'olio da bere, però ce lo dò in tre volte…. così faccio con il lievito messo in bagno, prendo un cucchiaino dell'acqua del lievito poi ce lo dò da bere in tre volte, di nuovo dico le parole che devo dire. Quindi vesto il bambino, ma alla rovescia. La prima mattina metto a rovescio la maglietta, la seconda mattina la camicina e, il terzo giorno lo vesto diritto. Mia madre diceva:- Lo potresti lasciare vestito a rovescio anche tutta la giornata- Ma le signore che vengono mi chiedono se mi sono sbagliata perché è vestito alla rovescia… [punto 4 q.069] Poi, quando il bambino è vestito, accendo il gas perché una volta avevo la stufa e lo mettevo davanti alla stufa poi facevo così [atto di far passare a semicerchio il bambino tenendolo sulle braccia] per tre volte sopra la fiamma, tenendolo stretto lo faccio girare per tre volte. Poi quando ho finito, prendo l'acqua del lievito con lo straccio dentro è la mattina, rivolta verso il sole, anche se non c'è è lo stesso, io so che il sole si alza da questa parte, getto via l'acqua in tre volte parlando, cioè dico quel che devo dire… Mentre lo lavo dico sempre le stesse parole ed anche quando lo vesto, variano quando lo metto sul fuoco e quando butto via l'acqua dico:- Getto via l'acqua per il tal motivo…Adopero sempre una parola fissa... Le parole le dico dentro me stessa… Mi sono dimenticata di dire che quando ho finito di lavarlo e asciugarlo, mi danno un po’ d'olio sulla mano, sfrego la mano e la scaldo vicino al fuoco del fornello, faccio così per tre volte, dico le mie parole mentre la mano diventa calda, poi do l'olio su tutto il bambino, quello lì sì che rimane sul corpo. Lo ungo dappertutto, anche nei piedi e specialmente nei nodi [polsi, tempie, giunture], perché sono i punti principali… [Il bambino] rimane così per tre giorni consecutivi, per tre giorni non gli si deve fare il bagno…[la madre] può pulirlo dove si sporca, gli indumenti che ha il primo giorno li deve tenere per tre giorni… Non è un santo che invoco nelle mie parole…”.
Guaritrice Bianca Gallesi. Segnatura del "Simiot".
Foto di Giuseppe Lodi - databile 1983
L'elemento primo è il lievito, questa sostanza “misteriosa” che, unita alla farina e all'acqua impastate, le trasforma in pane; non occorre molto ad intuire il significato analogo all'attimo del concepimento. I giorni per mettere in atto e concludere il rituale sono tre [numero magico].Tre o nove sono i lieviti da unire all'acqua o al vino. Per tre volte vengono ripetuti i gesti e le somministrazioni. Ogni gesto e ogni somministrazione sono accompagnati da una formula. Tre volte per tre volte: nove è il risultato di questo prodotto e nove sono i mesi di gestazione. È come se la vita venisse reimpastata. L'introduzione del bambino nel forno, dove l'impasto diventa pane, per associazione riproduce la permanenza pre/natale nel grembo materno dove l'embrione “lievita” fino ad essere un individuo compiuto. La definizione corretta di questo rituale è “levare al simiot” e non curare o guarire come alcuni informatori, indotti dalle domande, qualche volta hanno usato, e questo riporta ancora alla rappresentazione della nascita, collega la figura della donna che “leva al simiot”, e che può ricevere in compenso un pane, a quella della levatrice. L'ultimo atto di questo rituale sta nel versare il liquido rimasto nella terra, semplicemente orientandosi a levante, oppure nella terra alle radici di una pianta. Alcune informatrici testimoniano che il bambino sarebbe cresciuto similmente alla pianta, altre invece, che era il morire della pianta, nella fattispecie la vite, a determinarne la crescita [23]. Ancora una volta ciò che rimane dopo la “rinascita”, associabile alla placenta dopo il parto, ritorna alla terra. Anche nella memoria di rituale trasmessaci dalla signora Adelina Fancinelli, quella in cui il bambino veniva messo nel canale contro corrente, è leggibile la funzione del rito di rinnovare la nascita, anzi, l'analogia è evidentissima: al bambino che veniva messo nelle acque del canale, si faceva riattraversare simbolicamente l'irriproducibile dinamica dell'ultima parte del parto, cioè l'espulsione dall'orifizio vaginale favorita dal flusso delle acque. Se quella sopra esposta può essere un’interpretazione del significato simbolico dei gesti e degli elementi che rientravano nel rituale, una ulteriore possibile lettura potrebbe applicarsi al nome stesso che popolarmente era attribuito all’affezione: “mel dal simiott”. Nell’iconografia e nella letteratura antica, il demone, Satana, il male vengono spesso rappresentati sotto forma di scimmia [attualmente si dice impossessato dalla scimmia chi è tossicodipendente]. Sicuramente il nome di questa malattia sta a significare la credenza che il bambino fosse preda di un potere malefico. I guaritori depositari del rituale teso a liberare dall’atrepsia, invocavano lo scimmione affinché abbandonasse il bambino [ ]. Nella tradizione popolare la malattia era considerata una sorta di espiazione per colpe commesse da chi ne veniva aggredito e allora viene da chiedersi quali colpe potessero essere attribuibili ad un bambino che non ha ancora capacità intenzionali. La malattia era anche interpretata quale conseguenza di malocchio, fatture, contaminazioni e, nella fattispecie, una di queste ragioni poteva riguardare il bambino. Se, come si è detto, il neonato dal momento della nascita e fino ad un anno di età e anche oltre, rimaneva isolato spazialmente e marginato alle sole cure materne, sospeso culturalmente tra la vita e la morte, viene da chiedersi chi, se non la madre, per colpe inconfessate già dal momento della presa di coscienza del concepimento, per incuria precedente o successiva alla nascita, poteva considerarsi responsabile dell’esprimersi in forma negativa della vita partorita? Non va dimenticato che particolarmente nell’ambito rurale e operaio la natività era altissima e molto spesso le gravidanze erano indesiderate e subite, poiché la nascita di nuovi individui arrecava squilibri economici ed organizzativi all’interno della famiglia; spesso i bambini venivano tenuti nascosti al padrone del fondo nel timore che questi potesse interrompere il contratto; nell’ambito bracciantile o operaio le donne nascondevano la gravidanza per tema di licenziamento o mancata assunzione. Attualmente è largamente riconosciuto e dimostrato che i neonati nei primi giorni e mesi di vita, quando i loro mezzi di interazione con l’ambiente circostante sono pressoché nulli, abbiano altresì una forte capacità di catturare e assorbire positivamente o negativamente gli umori attorno a sé, conseguentemente si è indotti a supporre che nello stretto, ancora simbiotico rapporto madre/figlio, la madre, sottoposta a notevoli stress durante la gravidanza, il parto e il post/parto [tutte condizioni che nella tradizione religiosa e non sono ritenute impure, tant’è che la donna non poteva entrare in chiesa se non dopo il rituale della purificazione], aggiunte alle preoccupazioni che, nell’ambito della famiglia, la nascita del figlio poteva comportare, quella madre potesse riflettere sul figlio energie negative. D’altra parte, il neonato con la sua presenza più o meno problematica, poteva costituirsi come motivo di assoluzione o condanna [figlio indesiderato; un’ennesima femmina dopo la strenua attesa di un maschio; incapacità della madre di allattarlo; ecc. ]. Insomma era la madre stessa che, generando, poteva aver liberato l’indesiderabile, il male, “la scimmia” e trasmissibile attraverso la sua immancabile vicinanza e azione sul neonato. Quindi era la volontà della madre di annullare le negatività che la portava alla persona ritenuta capace di “levare al simiott”; con questa sua azione esprimeva il bisogno di aiuto e condivisione così da interrompere una più o meno sotterranea conflittualità con lo stato di maternità. Assieme alla guaritrice, non disgiuntamente anche da altri componenti la famiglia, la madre ridefiniva il rapporto con la sua creatura e la riconcepiva attraverso il rituale. Da quel momento il neonato diventava soggetto di osservazione attiva e di aspettative positive. Se il male aveva origine psicosomatica , non poteva che regredire. Questa potrebbe essere una spiegazione al successo ottenuto così frequentemente da questo rituale come asseriscono le tante testimonianze raccolte, L’interprestazione sopraesposta può trovare conforto in una accurata analisi condotta dall’anatomista ed antropologo Ashley Montagu, raccolta in un suo saggio Il linguaggio della pelle – il senso del tatto nello sviluppo fisico e comportamentale del bambino” e, in particolare, nel capitolo titolato: Tenera, amorosa cura, nel quale si legge: […] dato che i primissimi mesi dopo la nascita si possono considerare come il proseguimento diretto dello stadio intrauterino, è indispensabile continuare lo stretto contatto corporeo con la madre per soddisfare le esigenze di cinestesi e della sensibilità muscolare. E ciò comporta che il bambino sia tenuto saldamente, nutrito ad intervalli costanti, cullato, accarezzato, intrattenuto con parole e rassicurato [azioni perlopiù impossibili per le madri di condizione contadina, bracciantile e operaia fino a tutti gli anni Cinquanta]… L’ assenza del contatto materno abituale è in parte responsabile delle forme di irritazione cutanea che compaiono quando il bambino è isolato in un ospedale. In passato molti medici interni in ospedali per malattie infettive erano alquanto scettici sull’importanza di questo tipo di irritazioni, ma osservazioni recenti hanno messo in luce la sua realtà e la sua importanza pratica, dal momento che i bambini privati dell’abituale contatto corporeo materno possono sviluppare una profonda depressione con perdita dell’appetito, deperimento e talvolta marasma fino alla morte… Nel diciannovesimo secolo più di metà dei bambini moriva regolarmente, nel corso del primo anno di vita per una malattia chiamata marasma, una parola greca che significa deperimento progressivo: la malattia era conosciuta come Atrofia o debilitazione infantile. Ancora nel secondo decennio del ventesimo secolo, il tasso di mortalità infantile entro il primo anno di vita, in varo brefotrofi degli Stati Uniti, era quasi del cento per cento…”