A cura di Luciana Nora
Le case belle vi voglio contare/
Di cacio Parmigiano son le mura/
Et di ricotta le fanno imbiancare//
Riproduzione di un particolare di stampa popolare del ’600, titolata La Cuccagna – “Descrizione del gran paese di cuccagna dove chi più dorme più guadagna”
Le case belle vi voglio contare/ Di cacio Parmigiano son le mura/ Et di ricotta le fanno imbiancare//
Questa il commento ad un particolare di una tra le tante rappresentazioni stampate del paese di Cuccagna, che a partire dal primo Rinascimento entrò a far parte dell’immaginifico popolare a cui non rimaneva che sognare detto paese, dove fosse possibile saziare una fame che, sino alla fine del secondo conflitto mondiale, le scarse risorse rendevano infinita. Al centro del paese si alzava una “Montagna grandissima di cacio grattato, sopra del quale è una caldara larga un miglio, qual sempre bolle et manda fuora macheroni et ravioli, quali rozzolano per il cacio, cascano giù nel lago di butiro squagliato con fette di provature fresche et ognun ne piglia et mangia a suo piacere.” (1)
“Montagna grandissima di cacio grattato, sopra del quale è una caldara larga un miglio, qual sempre bolle et manda fuora macheroni et ravioli, quali rozzolano per il cacio, cascano giù nel lago di butiro squagliato con fette di provature fresche et ognun ne piglia et mangia a suo piacere.”
Riproduzione di un particolare di stampa popolare del ’600, titolata La Cuccagna – “Descrizione del gran paese di cuccagna dove chi più dorme più guadagna”
Molti furono gli incisori che si sbizzarrirono nel rappresentare il mitico paese e, sicuramente, traevano ispirazione dai racconti del Decameron di Boccaccio, il quale racconta di una contrada chiamata Bengodi dove “[…] eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la quale stavan genti che niuna altra cosa facevano che far maccheroni e ravioli e cuocerli in brodo di capponi, e poi gli gittavan quindi giù, e chi più ne pigliava più se n’aveva…”(2).
Parimenti al vino e alle carni del maiale, il Parmigiano Reggiano caratterizza fortemente la cucina emiliana, essendo impiegato nella composizione di quelli che sono i piatti principe della nostra tradizione; indispensabile nella preparazione del ripieno dei cappelletti, tortelli verdi e di zucca, ripieni salati, polpette, grattugiato sulle minestre, sulle verdure, con le pere, ottimo a chiusura di un pasto. Nemmeno la crosta del formaggio è da scartare, anzi se cotta nei minestroni , nel ragù di verdura o di carne, aggiunta agli stufati o anche al brodo di carne, conferisce loro un buon sapore e si fa ottima da consumare.
Da la tèvla a n’alvéret mai/ se la tò bòca la n’sa ed furmaj// (dalla tavola non alzarti mai/ se la tua bocca non sa di formaggio: ovvero senza chiudere il pasto con una scaglia, più o meno corposa, di formaggio). L’antico detto, avendo il formaggio a disposizione, non ha mai trovato resistenze ad essere messo in pratica e, anzi, per sottolineare un grande appetito, tra i tanti, è entrato nei modi di dire locali l’esclamazione: al g’ha la fam ed Magnoun Tunell (ha la fame del mangione Tonelli), balzato alla cronaca delle varie contrade per il fatto di essere riuscito a chiudere un lauto pranzo, mangiando, scaglia su scaglia, una mezza forma di formaggio.
Il Parmigiano Reggiano, apprezzato a livello mondiale, si costituisce come tanto preziosa fonte di reddito che, al pari dell’oro e del denaro, caso unico al mondo, ha trovato deposito in banca. Da più parti si è tentato di imitarlo e, sebbene ciò possa costituirsi come fattore destabilizzante del suo mercato, attraverso la indiscutibile qualità, continua a rimanere un impareggiabile unico. All’inizio degli anni Venti del Novecento, veniva denunciata per la prima volta una crisi casearia e la ragione veniva individuata nella concorrenza estera creatasi immediatamente dopo il primo conflitto mondiale; il settimanale Il Falco denunciava: “[…] Altri stati, e specialmente l’Argentina e il Canada, che per gli elementi etnografici hanno molti punti di somiglianza col nostro paese, iniziarono una lavorazione di formaggio cosiddetto Reggianitos che poterono, per diverse ragioni, mettere sul commercio ad un presso di forte concorrenza…”(3) L’articolo proseguiva sollecitando i produttori ad impegnarsi al massimo sotto l’aspetto qualitativo del prodotto, poiché, allora come oggi, è fondamentalmente quello l’aspetto che fa il Parmigiano Reggiano un formaggio inconfondibilmente unico.
La storia del Parmigiano Reggiano si perde nel tempo, anche se una cosa è certa: la ben definita area della sua produzione è rimasta pressoché immutata. Originario delle province di Parma e Reggio, da cui sortisce il nome, certamente la messa a punto del metodo di produrlo va individuata nei monaci Benedettini; a loro, intorno al Mille, vennero assegnate vaste proprietà le cui potenziali risorse seppero ingegnosamente sfruttare al meglio. Presso i monasteri ebbe a raccogliersi, in maniera stanziale od occasionale, una moltitudine che, in quei luoghi, trovava appoggio sia morale che materiale. La necessità di dare assistenza indusse i monaci ad individuare efficaci sistemi di incremento e quindi conservazione delle risorse alimentari traibili da quei territori che la graduale pazienza e perizia dei monaci seppe sfruttare al meglio. In quei luoghi vennero a crearsi i primi significativi allevamenti di bestiame bovino, gli unici che all’epoca fossero in grado di produrre quella quantità di latte necessario alla produzione di un formaggio con le caratteristiche del grana. A tal proposito non va dimenticato che le vacche di quell’epoca davano una quantità di latte assai inferiore a quella delle specie attualmente allevate e, essendo necessari almeno 300 litri di latte alla composizione di una forma di grana, se non nei monasteri, non v’era luogo dove se ne potesse produrre in tale quantità.
Non occorrono grandi ragionamenti a collegare il fatto che l’esigenza di radunare la piccola produzione di latte sino al raggiungimento della quantità utile alla produzione del formaggio grana, necessariamente induca l’idea e la pratica dell’associazione. Ancora oggi, ogni allevatore, quotidianamente, contribuisce con la sua piccola o grande quota, in ragione e misura della quale, va poi a percepire un dividendo dei proventi finali. Detta pratica, protrattasi per almeno mezzo millennio, non può non avere inciso nella diffusa cultura del tipico consociativismo emiliano – romagnolo.
Dall’epoca rinascimentale in poi, alla produzione del Parmigiano Reggiano iniziarono a dedicarsi le popolazioni rurali di tutta l’Emilia Romagna, sebbene, fuori dall’area tradizionale, la sua denominazione muti in Grana Padano.
Carpi, confinante con la provincia di Reggio Emilia, è tra i centri produttori di Parmigiano Reggiano. Non c’era frazione dove non fossero presenti almeno tre o quattro caselli e, in quelle dove l’agricoltura riusciva particolarmente ricca, si arrivava ad averne anche in numero assai superiore, come nel caso di Quartirolo dove se ne contavano almeno sette (Tirelli, Catania, Pratissoli, Cavazzuti, Pasini, Ferrari e un altro cooperativo) e di Fossoli presso cui se ne ebbero a contare altrettanti, dopo il risanamento dell’ampio territorio ad opera della grande bonifica degli anni Venti del Novecento.
Nell’ambito dell’economia agricola, l’allevamento del bestiame bovino si costituiva come un fiore all’occhiello e, in particolare, qui si allevava la cosiddetta “Bianca modenese”, eccezionale per la qualità del latte prodotto, per la bontà delle carni, nonché docile e forte nei lavori campestri. Il coltivatore diretto Sergio Turci a proposito della Bianca modenese, afferma: “[…] Il Parmigiano Reggiano prodotto nell’area carpigiana era il connubio del latte della Rossa reggiana con quello della Bianca modenese che sarebbe poi tipica del nostro territorio. La vacca carpigiana produce meno latte ma, a differenza della canadese, consuma meno mangime, campa di più, è più prolifica e, inoltre non teme la consanguineità. Il latte della carpigiana ha la proteina K b che manca a quello prodotto da altre specie. Attualmente il formaggio viene prodotto con il latte delle vacca Canadese: matura prima, è buono ma ha difficoltà a superare una lunga stagionatura. Il formaggio prodotto dal latte della vacca carpigiana può stagionare anche oltre i trentasei mesi...”
L’organizzazione produttiva poderale, caratterizzata dalla coltura della vite da cui trarre il buon lambrusco, non ha mai trascurato di coniugare detta coltura, inframmezzandola con ampie corsie di terreno messo a foraggio: ancora negli anni Sessanta, da un censimento condotto dall’Ufficio comprensoriale Carpi/Correggio, su circa un 50% del territorio era presente la cosiddetta coltura della vite promiscua. Ancora, sebbene notevolmente ridotta, era presente il sistema di coltura a piantata, ovvero: la pianta della vite sorretta da olmi, meli o peri e anche gelsi; questi ultimi si costituivano come prato pensile, dato che la loro foglia, oltreché preziosa per la bachicoltura, era un pregiato alimento per il bestiame bovino.
L’allevamento era particolarmente in funzione della produzione di latte, che salvo un’esigua quota impiegata per uso alimentare, era e continua ad essere destinato alla produzione del formaggio Parmigiano/Reggiano.
Da un calcolo effettuato nel 1908 risultava che nell’area del carpigiano fossero allevati 30.000 bovini (4); forse si trattava di una sovrastima che è, comunque, rappresentativa di quello che era l’orientamento dell’agricoltura locale. In Carpi, nel 1912, si contavano ben 46 caselli sia a conduzione aziendale che cooperativa. Il movimento cooperativo iniziò a concretizzarsi all’inizio del Novecento: da allora, è stata, e continua ad essere, una forma d’impresa caratteristica applicata in agricoltura, (caseifici, cantine sociali, nonché gestione di manodopera e macchine agricole) nell’artigianato, nell’edilizia, nel consumo ecc., risultata efficace sotto ogni aspetto, sia economico che sociale.
A determinare la fortuna dei caseifici di piccole, medie e grandi dimensioni, privati a conduzione diretta, privati a contratto o sociali, e sempre stata la perizia del casaro. Un mestiere questo a cui, ancora oggi, non si approda se non dopo un lungo tirocinio, che richiede dedizione assoluta, sotto certi aspetti simile a quella dei bovari a cui, sino a non molto tempo addietro, la cura del bestiame non concedeva sosta alcuna. L’errore di un casaro determinava un danno economico significativo, se poi era ripetuto, diveniva insostenibile; nel XVIII° secolo le sue caratteristiche venivano così delineate: “Il casaro deve essere uomo esperto nel suo mestiere, ma tanto più deve essere uomo di buona età, sano e forte e paziente e caritatevole e savio… chieto nelle sue opere, tanto per saper fare il formaggio, come per saperlo governare e custodire, avendo sempre l’attenzione di osservare se le sue vacche mangiano bene, se sono allegre nella testa… Il casaro sarà obbligato di fare formaggio, buttero e ricotta e custodirlo nel saladore come nella cassina, contenerlo ben fregato e polito tanto le forme come le assi e non mancare di voltarlo tutti i giorni una volta.…”(5).
Non deve colpire il fatto che tra le tante buone caratteristiche ritenute necessarie al buon svolgimento della professione ve ne siano alcune specifiche del carattere, poiché era stato osservato che l’intemperanza nel mangiare e particolarmente quella nel bere potevano produrre una variazione alla temperatura corporea che, sino all’introduzione del termometro Reamur, mal si conciliava con il dovere il casaro misurare quella del latte tramite l’immersione del proprio braccio.
Un’altra fonte precisa ancora meglio che: “Gli individui che si dedicano alla fabbricazione del formaggio appartengono a famiglie che compongono, per così dire, una casta separata, tramandano di padre in figlio, da parente in parente le loro cognizioni e i loro costumi… Molti di loro da fanciulli attendono alla custodia dei porci; più adulti al servizio della bergamina [di stalla] e, contemporaneamente, chi si sente inclinato e capace apprende la professione nella qualità di sotto/casaro. Chi vuol riuscire in questo impiego deve avere disposizione fisica e capacità morale. Dovendo fare il tirocinio nella qualità di sotto/casaro,gli abbisogna salute e robustezza per sopportare le fatiche inerenti al mestiere: E deve essere fornito di acume, buon senso e logica naturale, memoria felice e prontezza nel calcolo; giacché intorno alla professione nulla v’è di scritto, e tutto ciò che si conosce deriva da tradizione e cieca pratica imitativa…”
Altre fondamentali caratteristiche del casaro erano e rimangono l’onestà morale e la prontezza di calcolo, particolarmente in quel tempo protrattosi almeno sino agli anni Cinquanta, quando la maggior parte dei contadini era analfabeta e poco esperta nel tenere la contabilità. Un casaro disonesto poteva arricchirsi ma è pur vero che la cosa non si protraeva a lungo, poiché v’erano altre realtà di confronto e, seppure in maniera empirica, i contadini arrivavano ad averne consapevolezza e, potendo, indirizzavano il loro latte presso un altro caseificio. Sino al permanere della conduzione a mezzadria o terzeria era più probabile che la frode sui conti del latte fosse ad opera dei titolari dei fondi. Nell’accezione del concetto di moralità era compreso anche il rispetto delle donne alle quali, due volte al giorno, era affidato il compito di condurre il latte al caseificio dove doveva essere garantito il loro rispetto sia dal casaro che dai suoi sottoposti.
La famiglia del casaro, non dissimilmente da quella mezzadrile, si costituiva innanzi tutto come unità produttiva e le regole erano rigorosamente in funzione della produttività. il casaro era il capofamiglia e moglie e figli erano sottoposti alla sua autorità: come il reggitore mezzadro, quando il casaro non era in proprio ma a contatto, era tenuto a rendere conto di buona condotta per sé e per i suoi al proprietario del caseificio; a sua discrezione era la scelta di colui che doveva assumere il ruolo di sotto/casaro e, seppure auspicata, non valeva la regola della primogenitura o della parentela diretta, bensì ed esclusivamente la provata predisposizione sia fisica che di apprendere e praticare il mestiere. Un mestiere che era un’arte e, come tale, aveva tempi lunghi di apprendimento di tecniche e segreti che andavano custoditi gelosamente. Tutti gli altri, pur sempre di valido aiuto, erano sottoposti e si dedicavano ai servizi più disparati, compresa particolarmente la cura dell’allevamento dei suini, attività assai spesso abbinata, poiché il siero rimasto dopo la produzione di burro, ricotta e formaggio parmigiano, conservava buone qualità alimentari utili all’ingrasso dei maiali.
Il mestiere poteva uscire dal contesto parentale soltanto quando il casaro era alle dipendenze di un’azienda agricola, sebbene, anche in tal caso, avendo spesso al seguito la propria famiglia, la tendenza fosse quella di tramandare la professione in quell’ambito.
La tradizione ha iniziato a mutare con i caseifici a ragione sociale o cooperativa, sebbene la regola di trasmissione sia rimasta rigorosissima, poiché, ancora oggi, la buona sorte di un caseificio è imprescindibilmente collegata alla professionalità del casaro.
Le modalità di produzione si sono conservate quasi completamente intatte: caldaie capaci di contenere dai 10 ai 12 quintali di latte da cui ricavare due forme di formaggio per volta, del peso variabile tra i 33 /35 chilogrammi; aggiunta di siero d’innesto tratto dalla fermentazione di quello accantonato durante la produzione precedente nella misura di 2,5 chilogrammi per ogni quintale di latte. A differenza di un tempo, attualmente la cottura del latte avviene in caldaie munite di doppio rivestimento, tramite impianto a vapore. Inizialmente la temperatura deve essere lentamente portata a 15 gradi Reamur (corrispondenti ai 19 gradi Celsius): è quello il momento di aggiungere il siero, dopodiché si porta la temperatura tra i 25 – 26 gradi °R e, a quel punto, si sospende il riscaldamento e si inserisce il caglio che agisce per 10 – 12 minuti. Passato quel tempo, la massa coagulata viene per così dire tagliata e ridotta in grumi fini, quindi la lavorazione prosegue tramite uno strumento detto rotella che, manualmente, è mosso circolarmente affinché i grumi di cagliata non abbiano a precipitare verso il fondo. In questo modo si porta la temperatura intorno ai 45 °R; a quel punto la cottura è finita e i grumi di cagliata possono allora precipitare verso il fondo della caldaia: là assumono la consistenza di un impasto che appare gommoso il quale viene estratto e raccolto dentro ad un telo di canapa di grandi dimensioni, posto in “sercelle” di legno e, obbligato in quella prima forma, nell’arco dell’intera giornata viene girato e rigirato più volte, affinché si asciughi. Un tempo, durante questa fase, i casari provvedevano ad “tosare” gli esuberi, il cosiddetto tusòun, apprezzato da molti che, trovandosi nei pressi di un caseificio, vi entravano e lo godevano perlopiù gratuitamente. A sera la forma è trasferita in una fascera di metallo sbalzata all’interno con la scritta Parmigiano Reggiano e il numero del caseificio, di modo che tutta la fascia laterale della forma rechi il marchio a garanzia, nonché sia precisa la sua provenienza. Dopo due giorni di questa cerchiatura, la forma è abbastanza solida, pronta per essere estratta e messa a bagno in una vasca per la salatura: così immersa, rimane per 25 giorni. Terminata la salatura le forme sono messe ad asciugare e, quindi passano al magazzino di stagionatura.
V’è un aspetto che è degno di nota: non era raro che presso i caseifici si recassero quanti, afflitti da dolori reumatici, distorsioni o postumi da fratture ossee , cercavano sollievo immergendo la parte dolorante nel siero tiepido. Attualmente detta pratica, seppure consigliata dagli stessi medici, essendo scomparsi i piccoli caseifici a conduzione artigianale, è pressoché impossibile.
La massima igiene dell’ambiente è condizione fondamentale alla buona riuscita del Parmigiano Reggiano: puliti con cura costante sono le caldaie, le vasche di salamoia, tutti gli attrezzi e l’ambiente in generale. Dalla messa in forma e sino alla sua entrata in commercio, il Parmigiano Reggiano è soggetto a cure più che assidue: conservato in ambienti idonei dove la temperatura deve conservarsi costantemente sui 18 gradi, è girato e rigirato quotidianamente, la qual cosa richiedeva, una forza non indifferente: questa è sicuramente una delle ragioni per cui il mestiere di casaro è esclusivamente maschile. Uomini forti che come appare dalle molte immagini fotografiche reperite, amavano esibire la loro capacità di reggere con disinvoltura su un solo braccio levato una forma di Parmigiano. E anche se oggi l’estenuante operazione manuale di girare quotidianamente le forme, avviene quasi generalmente tramite macchine programmate, il mestiere di casaro continua ad essere pesante sia in termini di tempo che di fatica: dall’alba a sino a sera il lavoro non conosce sosta. Non è un caso che siano ormai rari i giovani che intraprendono la professione di casaro.
L’ampio territorio di sua produzione è ancora caratterizzato da strutture edilizie rurali, tutte completamente dimesse e un tempo utili alla sua produzione, ovvero: i cosiddetti caselli. Sono particolarissimi questi edifici, quasi tutti in pauroso abbandono e, al forestiero che ne colga la presenza, sicuramente suscitano interrogativi sulla loro chiaramente passata funzione. Dovendo essere facilmente raggiungibili dai contadini i quali, due volte al giorno, vi si recavano per la consegna del latte, appena internati, si affacciano sulle strade. Erano quindi luoghi d’incontro obbligato, presso cui, particolarmente la sera, si intrattenevano lunghi discorsi di confronto o anche solo conviviali; essendo frequentati sia da uomini che donne, molto frequentemente vi nascevano rapporti amorosi che, salvo poche eccezioni, conducevano a matrimonio. Costruiti in laterizio, non sempre a pianta rettangolare ma con forme particolarissime, caratterizzati da fitte prese d’aria, privi di tradizionali finestre, potrebbero apparire come “case dell’aria”. Là il ricambio d’aria doveva essere garantito in maniera incessante al fine di non inquinare gli umori del formaggio. Al centro del casello stava la buca del fuoco, alimentato da fascine, procurate dagli stessi contadini che portavano il latte per la sua trasformazione. Sulla buca del fuoco, sospese erano poste le caldaie.
La creatività e maestria dei muratori di un tempo ha fatto questi caselli uno diverso dall’altro: a pianta rettangolare o quadrata, esagonali, ottagonali, con il tetto a due, quattro, sei, otto spioventi, evocano pizzi intagliati nella carta da una mano esperta. Preziosismi e poesia erano posti in queste “case” del Parmigiano Reggiano, tanto da divenire soggetto di una splendida campagna fotografica, condotta magistralmente da Stanislao Farri negli anni Settanta (6). Segni di una cultura passata che andrebbero tutelati e la cui scomparsa può essere assunta ad emblema di un’incultura montante che, a dispetto delle apparenze, sta assumendo proporzioni preoccupanti.
Nonostante una concorrenza che si va facendo sempre più serrata il Parmigiano Reggiano, seppure a fatica, continua ad essere una risorsa economica significativa e un fiore all’occhiello per la vasta area di sua produzione. Il territorio carpigiano registra la progressiva chiusura di molti suoi caseifici: l’andata in pensione dei vecchi casari non trova valido ricambio.
La cessata attività dei piccoli e medi caseifici non necessariamente ha coinciso con l’allargamento di altri. Dalla vicina Novi, il presidente del Caseificio Razionale Novese, nel novembre 2002 dichiarava: “Il Parmigiano Reggiano non gode appieno dell’attenzione che si meriterebbe… Non siamo riusciti a spiegare al consumatore italiano il prodotto… scarso è il controllo dei prezzi praticati nel nostro paese… Sapete quanto costa al minuto ? Esattamente il doppio… I produttori di latte lamentano di non avere guadagno e, a volte di non riuscire nemmeno a coprire i costi di produzione; ragioni queste che nel corso degli anni hanno demotivato molti produttori… Il futuro del parmigiano è strettamente legato alla capacità di coprire i costi e avere un guadagno, perché i giovani altrimenti saranno sempre più demotivati se, pur lavorando dall’alba al tramonto, non riescono nemmeno a raggranellare l’equivalente di un miserrimo stipendio...” (7)
Note
1) Da La Cuccagna. Descrittione del paese de cuccagna dove chi dorme più guadagna, Roma, secolo XVII. Pubblicata in A. Bertarelli Le stampe popolari italiane, Milano 1974, pag. 62.
2) Giovanni Boccaccio, Decameron, Torino 1980, capitolo ottavo, terza novella, pag. 908.
3) Da Il Falco, 22 novembre 1923.
4) M. Cattini, Profilo di un secolo di storia economica e sociale, in La banca dei Carpigiani – 150 anni della Cassa di Risparmio di Carpi (1843 – 1993), Modena 1993, pag. 62.
5) Enciclopedia d’agricoltura pratica, Casalmaggiore, 1853.
6) S. Farri, Il Casello – ricerca fotografica di Stanislao Farri, Reggio Emilia, 1979.
7) Da Modena Economica, novembre/dicembre 2002.
Bibliografia
A. Bertarelli Le stampe popolari italiane, Milano 1974.
G. Boccaccio, Decameron, Torino 1980.
S. Farri, Il Casello – ricerca fotografica di Stanislao Farri, Reggio Emilia, 1979.
N. Vaccai, I caselli: elementi minimi di architettura rurale, in Il Parmigiano Reggiano, 2° semestre, 1988.
La storia antica e moderna del Parmigiano Reggiano raccontata dal casaro Leone Sacchi, Bologna 2002
AA. VV. La banca dei Carpigiani – 150 anni della Cassa