Ricerca e commenti di Luciana Nora
Una componente determinante per lo sviluppo economico del Carpigiano è stata la presenza spontanea e abbondante delle di salice, salicella, tavernella e pioppo che, coltivati ed ingegnosamente lavorati, hanno reso possibili le fortune dell'industria del cappello di truciolo (vedi alla voce specifica nelle pagine del Centro di ricerca etnografica).
Questo tipo di lavorazione le cui origini risalgono all’inizio del Cinquecento, dapprima artigianale, quindi industriale a partire dai primi dell'Ottocento, conciliava i suoi ritmi e tempi produttivi con quelli del lavoro agricolo, poiché alla fattura del cappello di paglia utile dalla primavera inoltrata e per tutta l’estate, la manodopera si dedicava durante il periodo invernale, quando cioè i lavori in campagna erano pressoché fermi. Alla produzione si dedicava in larghissima maggioranza manodopera a domicilio, in prevalenza femminile e minorile; quest’ultima avviata all’attività già dai cinque o sei anni, nelle eufemisticamente denominate “scuole di treccia”.
Il tema del lavoro femminile a Carpi è stato più volte affrontato; risale all'aprile del 1990 il convegno internazionale di studi titolato: "Il lavoro delle donne nell'Italia contemporanea: continuità e rotture " ed una mostra con rispettivo catalogo, titolata "Percorsi di vita femminile" che hanno, se non altro, tentato di porre le basi per un'analisi più approfondita di quello che è stato e continua ad essere il ruolo fondamentale della donna nell'economia carpigiana e di quanto, questo ruolo, possa aver influito nei processi di trasformazione sia in ambito familiare che sociale in senso lato.
Ne consegue che da secoli le donne carpigiane sono produttrici di reddito. Un reddito fondamentale per il sostentamento delle famiglie bracciantili ed operaie, non di rado, l'unico su cui fare davvero affidamento.
Ma anche le donne contadine si dedicavano a questo lavoro, producendo un reddito integrativo che rimaneva in loro gestione. Questo fatto ha determinato, in maniera più o meno palese, attenuazioni alla subalternità femminile in ambito familiare, anche laddove le gerarchie erano più marcate come nel patriarcato rurale.
Quelle che seguono sono solo alcuni dei tanti brani di intervista raccolti.
In tutti questi racconti attinti dalle tante testimonianze orali raccolte e conservate su nastro magnetico presso il Centro di ricerca etnografica, traspare, soprattutto dai toni usati che qui è impossibile riportare, un sentimento di fierezza, dovuto alla consapevolezza, specialmente delle braccianti, di aver avuto un ruolo fondamentale per sé e per la propria famiglia, sia quella d'origine che quella maritale. Anche gli uomini che raccontano di questa realtà, sono concordi nel riconoscere alle donne madri, sorelle, mogli e nonne, l'importanza che queste hanno avuto in ambito familiare.
"Mia nonna è rimasta vedova molto giovane e aveva dei bambini piuttosto piccoli e s'è messa a lavorare; non soltanto a fare la treccia ma ha pensato: Beh, voglio allargarmi un po' Era una donnina analfabeta ma molto intelligente: memoria di ferro, strabiliante che ancora oggi non si capisce come facesse a ricordare tante cose. Analfabeta com'era, faceva delle operazioni mentalmente che oggi è un problema già farle a matita... vendeva migliaia di trecce a frazioni di centesimo e sapeva quanto doveva guadagnare... Sembrava insignificante a guardarla ma, questa donna, da sola e vedova, riuscì a tirar su i suoi due figli e non solo i suoi, ma anche altre tre figlie di un secondo marito che era un suo operaio...riuscì a mettere insieme un laboratorio con 16 18 macchine. Erano in piazzale Ramazzini. E' riuscita a comperare due case, poi una terza che fece aggiustare. La mia nonna si chiamava Clotilde..."
" Le donne cominciavano da ragazze a fare la treccia e, soldino su soldino, si facevano una piccola dote ..."
" Le mie sorelle hanno cominciato presto (a mettere da parte il corredo), dovevano avere quindici anni, facevano i cappelli e si comperavano un lenzuolo, qualcosa..."
"[...] Alla sera, mi ricordo, che (le donne) si mettevano lì a chiacchierare e intanto facevano la treccia e poi si tenevano i soldi loro e si comperavano quello che volevano... Aiutavo poco in casa, perchè avevo fretta di fare della treccia, perchè facevo sempre la treccia, anche d'estate. Quando sono andata alla cresima mi sono presa i pendenti e il vestito, me li sono pagata io. Avevo quattro anni e mezzo, non avevo ancora cinque anni e facevo la treccia... Non sono mai andata alla bottega senza pagare. Delle volte finivo due o tre cappelli, li portavo alla fabbrica, andavo alla bottega e comperavo subito qualche cosa per la casa, perché mio marito aveva due o tre mesi che non lavorava..."
"[...] Mia madre vendeva anche i polli e le uova, però bisognava che mio padre lo sapesse. Se faceva una treccia non c'entrava con la famiglia: quelli lì li spendeva lei dove credeva necessario..." (43)
"[...] Dopo sposata facevo i cappelli e tenevo quei soldi per me, per avere soldi senza dover sempre chiederli..."
"...Io facevo i cappelli di Menotti. Ne facevo uno ogni due o tre giorni e guadagnavo venti lire...Abbiamo tirato avanti con quello che tiravo io dei cappelli...prendevo più io che mio marito..."
Si potrebbe continuare all'infinito poiché ogni donna anziana di Carpi potrebbe riconoscersi, riraccontare o confermare le testimonianze sopra riportate.
Ma se questi erano ruoli di supporto all'economia familiare, un numero non indifferente di donne carpigiane sono state e continuano ad essere le dirette protagoniste dell'economia carpigiana.
Tra le molte testimonianze raccolte, una delle più esemplificative e complete, è la seguente:
" Ho cominciato in una fabbrica di cappelli, naturalmente come trecciatrice... in fabbrica io ho sempre fatto di tutto, di tutto quello che era inerente ai cappelli di truciolo... Nel '58 ho avuto qualche diverbio col mio titolare e mi sono licenziata...poi mi ha fatto delle proposte enormi, però io ho sempre capito che era inutile andare a fare una società con questo mio padrone perché non avrei mai potuto mettere il naso negli affari... allora, con l'aiuto di mio marito, abbiamo cominciato a pensare di metterci in proprio e di cominciare a navigare su una piccola barca che poi poteva diventare...un bastimento: e così è stato. Allora c'erano diverse donne che erano rimaste a casa da lavorare: le ho interpellate e, i primi tempi, lavoravo per conto terzi...Poi, pian pianino, che conoscevo i clienti, conoscevo un po' tutti, avendo lavorato in fabbrica, sapevo che il filo si comprava da Pinco, le trecce da... Io penso che sia una cosa innata, se uno nasce con un certo istinto, ce l'ha subito il pallino di progredire...io ho cominciato subito, fin da bambina a voler sapere e fare tutte le cose, finché non ero riuscita...Il mio prodotto costava meno, perché non avevo spese di impiegati, perché mi sono arrangiata da sola... Io avevo una passione che direi meravigliosa, perché ad aver fatto la quinta elementare ...quello che ho fatto, l'ho fatto da me. Mi sono arrangiata... essendo in una zona attrezzata, non era difficile... Non ho mai avuto rappresentanti, perché i rappresentanti costavano troppo, l'aggiunta del 10% sul nostro prodotto non era possibile... Una ruota, quando si comincia ad avviare, è più facile avviarla che fermarla... La notte rimanevo alzata fino a tardi... prendevo il vocabolario e mi traducevo le lettere da sola... avevamo messo lo zampino dappertutto. Dopo diversi anni avevamo: l'Europa, l'Europa Ovest... poi avevamo tutto il Medio Oriente: Kuwait, Giordania, Israele, Beirut, Libano... La maggioranza delle mie macchine, quando non c'erano delle rotture di grosse proporzioni, le aggiustavo io... Creare è importante... diciamo che il progresso che ho fatto, l'ho fatto perché ho creato. Se guardavo i giornali, beh, erano modelli già usciti, mentre io creavo le cose... Io mi sono sempre trovata bene, perché quello che facevo, lo facevo di mia iniziativa... I miei cappelli avevano un marchio e, quando erano fuori, si sapeva che erano della ditta tot... Può essere che sia in grado di fare anche un uomo, ma io direi che la donna è la principale... C'era un cliente di Torino che mi chiamava "La Tigre", perché ero salda, tutta d'un pezzo..."
Anche sul versante del tessile/abbigliamento Carpi ha avuto "Tigri" e "Cicloni". L'industriale Clodo Righi, ripercorrendo la storia della sua azienda, Frarica di Carpi, sottolinea quanto le donne abbiano inciso al nascere di questa grande impresa: "Mio padre e mia madre erano commercianti di cappelli. Io ho iniziato un po' come commerciante ma, soprattutto, come fabbricante di cappelli. Il passaggio alla produzione di camicie è avvenuto nel 1947... veramente hanno iniziato soprattutto mia madre con la moglie di Bruno Nora fondando la "Cinor" poi, quando ho visto che le cose sembravano avere buone prospettive, pur continuando a fare cappelli di paglia, mi sono inserito anch'io... Perché le camicie? C'era la Benetti a Carpi che è stata la prima a fare camicie e, io credo, che mia madre e questa signora Nora, abbiano pensato, vedendola, che era un lavoro che si poteva fare dato che non c'erano difficoltà a venderle... e, assieme, si sono messe a far camicie. Poi mi sono interessato anch'io ed è nato tutto il resto... nel 1950 '51 ci siamo divisi: Nora ha dato vita alla "Cinor" e noi alla "Frarica - Fratelli Righi"..."
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Gruppi di donne impegnate nella lovarazione del truciolo in imprese artiginali |
Sullo stesso registro sono anche le testimonianze dell'industriale Mario Brani, O.B.C., che ricorda che l'intrapresa fu un'idea di sua madre Ottorina Galliani, sarta di professione.
Gastone Bucciarelli, tra i titolari del "Gigliola -Tessile", risalendo alle origini aziendali, evidenzia il ruolo fondamentale della suocera Carmen Lugli che, in società con Maria Martinelli, "Carma", furono tra le pioniere della maglieria.
Quindi una trasformazione ed un progresso economico che ha visto le donne, a tutti i livelli produttivi, in primissima linea. Queste donne, che erano anche madri e mogli, per anni si sono dibattute nel disagio di dover conciliare gli intensi ritmi produttivi con il lavoro di cura familiare.
Su queste donne, sotto certo aspetti atipiche, stimate dai loro uomini ma anche temute proprio per la loro intraprendenza e possibile indipendenza, è stato scritto:
È una ricca cittadina/
Che sa far la rašorina/
E il commercio fa brillar//
Sia pur trista una ràgasa/
Sia pur sòpa o pur guercina/
Se sa far la rašorina/
Si può presto maritar//
Evviva Carpi/
Viva al lavor/
Viva al truciolo/
E al so inventor//
Da “La Rondine”, periodico carpigiano, primavera 1886:
Le nostre trecciaiuole
Perché nessuno la riconosca al primo tratto, chiamandola col suo vero nome – un nome simpatico e strano – lasciate che io biblicamente la chiami col nome della nostra buona madre Eva, l’unica non abbonata a nessun giornale di mode e priva soprattutto di quel bacillus – virgola noto comunemente sotto il nome di suocera.
È un nome questo che le sta proprio a pennello e che essa ama come ama con passione tutto ciò che è bizzarro e che si scosta grandemente dal comune. Per essa non vi sono usi sociali, non regole: vuol fare tutto da sé, tutto diverso da quello che fanno gli altri, nel vestire, nel lavorare, nell’amare. Purché sia notata fra le sue compagne, ella non si cura di nulla, né di seguire a puntino i precetti della moda, quantunque io abbia osservato che i suoi abiti sono sempre rigorosamente ispirati alle regole della più squisita eleganza e del più perfetto buon gusto.
Guardatela un momento, due soli minuti, quando a piccoli e affrettati passi si reca al lavoro in una delle principali fabbriche, e sappiatemi dire se a quel magnifico tipo, a quel volto pallido, a quegli occhi glauchi che si fissano per un secondo su di voi e si abbassano subito con un moto di adorabile pudicizia, si può reprimere un sospiro di desiderio.
Molti l’hanno amata, ma essa credo non abbia amato giammai. In quel suo petto di fata, il cuore non ha mai palpitato. Perché? Mistero. Ho parlato una volta con lei: ha qualche cosa in lei di repulsivo; sembra che, senza dirlo, vi respinga.
Eva è di una volubilità fenomenale. Il suo carattere strano non le procura delle amiche; infatti io non la vidi mai con le compagne di fabbrica. Essa disvuole oggi ciò che voleva ieri; l’abitino elegante che le aveva procurato tanti sguardi d’invidia, oggi lo scucisce, lo cambia perché non le va più a genio.
Tutte coloro che sono state in casa sua mi dissero che la camera di Eva dei giorni si trova in uno spaventevole disordine, come lo studio di un pittore bizzarro: dei giorni invece vi è quella simmetria, quella penombra, quei mobili puliti da farla credere la camera abitata da una donnina tutta casa e famiglia. Sul suo comò ha costantemente tre libri, che danno da pensare, quando non fanno piangere: Jacopo Ortis del Foscolo, le poesie del Leopardi, e Un giorno a Modena. Perché ha questi libri? Se lo chiedete a lei vi sentite rispondere: - Non so… così… per capriccio. – Un ultimo particolare ed ho finito. Eva è aristocratica. Aristocrazia naturalmente relativa, ma che la distingue assai dalle fanciulle del suo ceto, tanto che, se vien dato d’incontrarla, invece di salutarla con un addio, buon giorno come è d’uso colle sue pari, vi sentite istintivamente spinti a por mano al cappello.
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Lovarazione del truciolo in fabbrica e a domicilio |
Fisiologia della trecciaiuola
“Come ciascun popolo ha la propria indole, i propri costumi, le proprie idee, così scrive Balzac, ogni classe di gente, ogni ordine di persone, ha i suoi usi propri, i suoi principi, le sue tendenze, le sue aspirazioni, nelle quali vive e s’aggira senza preoccuparsi del restante, soddisfatto della propria casta, della propria individualità. … Una di queste classi distinte, anzi la classe predominante nella città nostra, e quella che ha più spiccate differenze delle altre e più uniformità in se stessa, è senza dubbio quella della trecciaiuola. Dalla vita che conduce quotidianamente nelle fabbriche, attiva al lavoro, e sempre in compagnia delle sue coetanee è risultato che la trecciaiuola da ragazza di famiglia è divenuta l’operaia costituente quella casta cittadina che ha vita, costumi, idee, tendenze tutte proprie. La trecciaiuola, come la grisette, cantata da De Musset, si sente nell’animo quell’aria di indipendenza, quell’idea di sovranità che la distingue dalle altre fanciulle. Essa lavora, è sollecita, è assidua alla sua fabbrica; sa quello che può guadagnare se quell’anno prende buona piega il commercio del truciolo, e di altro non si imbarazza. Conosce pochissimo i lavori domestici e li schiva ma non per colpa sua: è un fatto naturale, a lei non si insegnò che la treccia. Fin da bambina di quattro o cinque anni le si da la paglia in mano: fa quella da tre, poi quella da nove, quindi la rasolina ed infine lascia le stufe, diventa operaia e frequenta le fabbriche. La trecciaiuola è fantastica e sentimentale come alle volte è positiva e scettica…; là, tra una treccia e l’altra fabbrica il suo roseo avvenire… Per avere un’idea del buon gusto che hanno le trecciaiuole nel vestire, nell’adornarsi basta frequentare una sera di festa il passeggio dei portici di piazza, ove queste figlie del popolo per grazie e per eleganza riescono ad eclissare le signore del paese… Ed anche nei giorni di lavoro, vestita semplicemente, ma graziosa e pulita, è sempre elegante con quella sua andatura spigliata e disinvolta, con quei suoi occhi vivi che vi fissano seri e che vi costringono a guardarla, ad ammirarla, a dirle magari un complimento. La trecciaiola, come la grisette del quartier latin, ha i pregi indiscutibili della bellezza, della gioventù, della libertà, e come a quella non le è ignoto l’amore, sa farsi amare ed ama… anche troppo! Però il suo amore se è forte e bollente, a volte impetuoso, proprio de’ suoi vent’anni, non è, fortunatamente per lei, troppo saldo e costante. Come con prontezza, con trasporto volentieri si lega all’oggetto amato, così con la stessa facilità sa sciogliersi quando sente che questo amore le sarebbe di peso; preferisce farsi tacciare per leggera, all’incontro di sopportare un affetto che non sente più… Più positiva, più seria , dove la sartina ricorreva al braciere di carbone ed al fiume, essa più pratica ricorre al lambrusco e ad un nuovo amore; in questo è flemmatica, approva l’antico adagio: Chiodo scaccia chiodo!”
da “Ricordo del Carnevale 1893”
/Ma son sincera e onesta/
/Lavoro con il truciolo/
/Di treccia ben contesta/
/Un bel cappello candido/
/Che Biondo immaginò./
/ /
/Viva! Gridiamo unanimi/
/L'arte, la Patria, e Pio/
/Che qui regna benefico/
/A immagine di Dio,/
/Che a larga mano semina/
/Il premio alle virtù./
/ /
/E lavoriam... che scorrono/
/Le ore, i giorni, e gli anni;/
/Amiamoci, e non siam poveri/
/Che Dio fuga gli affanni/
/Di chi serba nell'anima/
/Amore alla Virtù./
/ /
/Lavoro, pace e giubilo/
/La trecciaiuola ha in core;/
/Speranze in lui fermissima/
/Che padre è dell'amore/
/Ed intrecciando il salice/
/Col guardo al cielo sta./
/ /
/ C.Benvenuti/
Sorge la luna dietro l’alta mole
Del castello de’ Pio. Tacite e nere
L’ombre giù in piazza piombano severe
Negri fantasmi di vetuste fole:
Come sotto al divino occhio del sole
Stormi cantanti a vol di capinere,
allegramente pisbiglianti a schiere,
lungo il portico van le trecciaole.
E da’ begli occhi guizzan lampi ardenti
Di volutta, d’amor, di gelosia,
da’ begli occhi furtivi, impertinenti.
Oh, se legger potessi in ogni cuore
Quanto di falso e di vero vi sia,
in que’ begli occhi che fanno a l’amore!…
Bèli putèini ed Chèrp, che tutt el sir
Quand a souna al s’cifloun, a saltè fora
‘d fabrica, e con cla grazia cl’inamora
sott al pordgh andè a fèr al voster gir;
oh, s’a savissi cus’ am fè sintir,
chè in dal magòun, quand a s’avseina cl’ora!
Quand av vèd tutti alegri a saltèr fora;
mo l’è … quella… sol le a n’la vèd gnir!
E a gh’vliva tante bein, e a l’aspetteva
Ogni sira in dla stretta, a l’acqua, al veint;
e pian pian a ca’ sua a la cumpagneva.
Mo un dè la m’ge: - Chè a gh’è poch da ciapèr.
A vagh via, in d’un grand stabilimeint
In dua a soun più sicura ed guadagner!-
E infatti un bel mumeint
Im gin, ridend: - Al set, la tô Maria
La lavora a Milan, in Galleria!-
(Belle bambine di Carpi che tutte le sere, quando suona la sirena [di fabbrica], uscite fuori di fabbrica e, con quella grazia che fa innamorare, sotto i portici andate a fare i vostri giri/ Oh, se sapeste coisa mi fate sentire, qui, nello stomaco, quando si avvicina quell’ora, quando vi vedo tutte allegre saltar fuori. Ma è quella solo che non vedo arrivare/ Le volevo tanto bene e l’aspettavo ogni sera nella stretta, all’acqua, al vento e, pian piano, a casa sua l’accompagnavo/ Ma un giorno mi disse: - Qui c’è poco da guadagnare. Vado via, in un gran stabilimento dove sono più sicura di guadagnare/ E infatti, un bel momento, mi dissero: Lo sai la tua Maria? Lavora a Milano, in galleria//
Trecciaie e cappellaie della cooperativa trecciaie di Fossoli |
La donzelletta vien dall’opificio
Quando è più alto il sole
Col suo scialle di sghembo, e reca in mano
La busta della paga,
onde, siccome suole,
comprare ella si appresta
dimani, il dì di festa, e pizzi e trine
e calze e guanti e ciprie sopraffine.
Parla con le vicine
Mentre fa da mangiar la vecchia mamma,
e novellando vien dei tristi tempi
allor che costumava
lavorare, quel dì, fino alla sera;
e poi ciascun tornava con lo scarso guadagno
alla dimora queta,
né sarta e trecciaiola
si permettea di usar calze di seta.
Già il pranzo è terminato;
esce la balda schiera
dei giovani festosi
delle vispe fanciulle
fuori al passeggio, ai giuochi
ai giocondi convegni in mezzo ai prati
ed i caffè affollati
danno non dubbi segni
che la festa in anticipo è venuta.
I fanciulli giocando
Al foot –ball sul sagrato
E qua e là saltando
Rompono il naso a qualche viatore;
e il buon lavoratore
va in dolce compagnia
a ber quattro bottiglie all’osteria
e seco pensa e spera
oh, durasse così la vita intera!
Poi quando intorno è spenta ogni altra face
E tutto l’altro tace
Odi per l’aria oscura
Salir di note sgangherate l’eco
dai balli popolari, dalle veglie,
ove la lieta gioventù si svaga
e consuma la paga
anzi il chiarir dell’alba.
Questo di sette è il più gradito giorno,
grazie alla moda inglese;
domani nuovamente
si sentirà l’odore
del Lunedì che viene
e alle consuete otto ore
ciascuno il suo pensier farà ritorno.
Garzoncello scherzoso,
questo giorno sereno,
questo dolce far niente,
non c’è che dir, è una gran bella cosa;
è il segno più evidente
che s’avvicina il giorno
in cui di lavorar si farà a meno.
Godi, fanciullo mio, dormi contento
E fa il sabato inglese!
Altro dirti non vo’, sta solo attento
Che talun non ti mandi a quel paese.
“[…] La fanciulla, compiuti i dodici anni, trova collocamento nella fabbrica dove dimentica l’alfabeto e, per converso, impara ad essere non donna ma femmina…”
Da manoscritto originale di Alfredo Bertesi
Questa satira nemmeno tanto sottile, l’essere sempre sotto una lente di ingrandimento maschile al fine di non perdere il controllo, arrivò a generare una pubblica rimostranza nell’ambito del Congresso Provinciale delle Maestranze del Truciolo, tenutosi nel giugno del 1928 dove, Giuseppina Goldoni, a nome di tutte le lavoratrici, tra l’altro, dichiarava: “[… Intendiamo] stabilire che della nostra femminilità, della nostra volontà nulla è venuto meno, e che la donna dello stabilimento, la donna del lavoro pure nella quotidiana fatica, nella diuturna lotta per l’esistenza, nulla ha perduto del suo profumo, della sua poesia, della sua fede. Quindi se qualcuno, se da qualche elemento ozioso si è osato pensare che la donna del focolare possa essere differente dalla donna del lavoro, quindi più buona, più cara perché non viziata dalle necessità delle battaglie economiche, noi rispondiamo che pure nella fatica, pure nel gravoso lavoro non dimentichiamo la nostra missione..."
Il poeta scrittore chiavennasco Giovanni Bertacchi, nel 1918, ospitato da Alfredo Bertesi per il quale scriveva: “Un’Arte italica – Il truciolo”, manoscritto rimasto inedito, l’originale del quale è conservato all’I.S.R di Modena nel “Fondo Bertesi” (copia presente anche presso il Centro di ricerca etnografica), scrisse anche una poesia ispirata dal lavoro delle cappellaie:
Che fai? Sei tu la maga di Burano
Che con l’esili dita si trastulla
E il merletto diafanosi crea?
O sei forse l’aurora a cui di mano
Esce il dorato cirro che si culla
Al balcone del dì? Pari all’idea
Primisssima d’un canto è il tenue punto
Che esce in ondulato giro
Dietro a cui sedotta anima agogno.
Dalla tua bianca man esce il trapunto,
o ti si fa dall’occhio e dal respiro?
Maga di Carpi, il tuo lavoro è un sogno.
“Le donne [a Carpi] fanno le trecce, nascono trecciaiole. È nel sangue l’attitudine, l’agilità delle mani nelle mosse rapide, minute per consegnare l’intreccio voluto. Lavoro gentile e mite, nella lunga consuetudine divenuta quasi meccanica, consentendo libertà allo spirito, alla parola, al movimento; ma richiede pazienza e senso artistico, talvolta squisito a chi cerca e crea i tipi nuovi, da cui verrà il lavoro del domani…”
Vitige Messori (1929)
Il carpigiano Ondino Miselli, più conosciuto come pittore caratterista con lo pseudonimo di Namis e ancora, come caricaturista, con quello di Ursus, in gioventù si era innamorato di una trecciaiola che, tisica, come tante, moriva a 16 anni. Per lei scriveva:
A g’ho puge ’na rosa rossa/
Al fior ca ’l te piasiva//
Le la m’ricorda i dè che tè t’er viva/
Chi teimp alòr acsè bê, ch’in tornen più/
A m’sembra ed vedret
quand, in dal mesdè,/
Tùta srèda in dal scialett t’endev giuliva/
Meinter la gint al tô passer la dgiva/
- La pèr ’na fata/ dègna d’un gran re/-
Ma t’er ’na terzarola e in un budgoun
Curva su trèzi e solf e udor melsan/
I tô sògn et brusev/
E i tô pulmoun/
E acsè la sira
Come un fior pian pian/
Meinter tô medèr la dgiva l’urazioun/
La testa te pighiss/
Te gh’iv sedz ann//
(Sulla tua bianca croce/ ho posata una rosa rossa/ Il fiore che ti piaceva/ lei mi ricorda i giorni in cui tu eri viva/ quei tempi allora così belli che non tornano più/ Mi sembra di vederti/ quando nel mezzogiorno/ tutta serrata nello scialletto andavi contenta/ mentre la gente al tuo passare diceva/ - Sembra una fata, degna d’un gran re/ Ma eri una trecciaiuola e nei bottegoni/ curva sulle trecce e zolfo e umori malsani/ I tuoi sogni bruciavi/ e i tuoi polmoni/ E così una sera/ come un fiore, piano piano/ Mentre tua madre recitava una preghiera/ la testa piegasti/ Avevi sedici anni//
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Dal Truciolo al tessile abbigliamento
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Da Riccardo Forte in “La mia scoperta di Carpi” su avvenire d’Italia, 1955:
“[…] in parecchie famiglie carpigiane si è istituita una specie di matriarcato. La donna lavora e l’uomo fa le faccende domestiche. Qualche marito si è provato a far la maglia, e il pensiero era gentile… ma pare che i pantaloni siano inconciliabili con questa attività. Il sesso maschile si limita in generale al lavoro di spedizione e di imballaggio… La donna dunque mantiene la famiglia. Questo lavoro determina nelle banche un movimento di cinquanta milioni al giorno. Così la miseria è scomparsa…”
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*Da Giorgio Bocca in gusto italiano paghe giapponesi – 1962:
“[…] centinaia di fabbrichette con il nome dell’azienda sopra il tetto: Clorinda, Miriam, Lucy, Giba, Noemi, … Marilyn… I nomi delle mogli e delle figlie, un miraggio paesano della Bassa… Sono fabbrichette strane, magari senza una macchina e con poche operaie, ma capaci di fornire quantità inverosimili di maglie... Nelle aziende si rifinisce e si commercia. Così bisogna accordarsi con i majer, i magliai, quei tipi cordialoni, forse troppo, vestiti all’ultima moda, con facce color terra e sangue come quella di un Adamo celtico, appena impastato. Se si può è meglio trattare con le loro donne che sono le vere direttrici dell’azienda…
[…È] il miracolo che come tutti i miracoli è un po’ misterioso, tanto che ognuno ve lo racconta a modo suo e ogni categoria lo rivendica. Incominciano le ambulanti: la maglieria va a ruba e ne ordinano quantità sempre maggiori a chi lavora a domicilio… le contadine [si trasformano] in artigiane… siamo a duecentocinquanta aziende per cui lavorano quarantamila donne con ventimila macchine… Un reticolo di maglieriste, cucitrici, ricamatrici, stiratrici, campioniste che copre intere regioni; un formicaio laborioso, fagotti di lana che passano da un cortile all’altro, da questa a quella cascina, il rumore leggere delle macchine dall’alba al tramonto…”
*da Gigi Ghirotti in A Carpi, progresso senza dottori – 1963:
“ L’anima del boom maglieristico… che è esploso a Carpi in questi anni, è un’anima femminile. I nomi che si leggono sul frontone degli stabilimenti, richiamano una nomenclatura familiare… a decifrarla nella chiave giusta, tutta questa nomenclatura al neon nasconde fondatrici, primogenite di fondatrici, zie, nonne di fondatrici dell’industria maglieristica carpigiana. Dieci anni fa, la pioniera batteva la piazza a far l’imbonitrice. Al tempo del riso, in risaia con le mondine di Carpi che s’imbarcavano per il Piemonte. E d’inverno in giro per l’Emilia a vendere golfini, sottovesti, le ultime rimanenze della lanetta autarchica…”