A cura di Luciana Nora
La mostra può essere itinerante – Per saperne di più, rivolgersi al Centro di ricerca etnografica – Città di Carpi tel. 059/649969 indirizzo di posta elettronica:
Sommario dei contenuti della mostra
Don Antonio Bellini di Carpi, prezioso ricercatore di storia locale, sosteneva che il ricostruire la storia del fiume Secchia si costituiva come disperazione per quanti vi si cimentavano. Scorrendo i vari documenti emersi durante i molteplici studi, il Secchia o la Secchia viene nominato come Sicla o Sicula o Secies che si aggiunge all’Acqualonga e alla Moclena. Il Secchia, fiume di cui il nostro paese è dono e ragione del suo sorgere,… è tra i tanti fiumi, il più capriccioso che si conosca. La direzione del fiume era varia: di sotto Rubiera si era formato un vasto delta le cui diramazioni, tutte con arco più o meno vasto, volgevano a levante, quasi parallele al Po in cui non ha mai sfociato. Il corso naturale delle acque non governato dall’opera umana si estendeva disordinatamente nell’amplissima pianura e alimentava la distesa di paludi inabitabili tanto da indurre Astolfo, nel 753, a donare queste terre a Nonantola, affinché i monaci avessero a bonificarle, opera improba che non riuscì loro di portare a compimento.
In uno studio del Gaudenzi è riportato un passo di un diploma di Carlo Magno a favore della chiesa di Reggio in cui, a proposito del Secchia, era scritto: “[…] poi per il Secchia sul territorio tra Rubiera e Campogalliano e poi in Campo, e così scorre tra Capo e la Pieve di San Tommaso detto della Lama [odierna parrocchia di Quartirolo di Carpi] e poi all’Acqualonga fino alla villa che si chiama Giardino del Re.”. Partendo da questo documento Don Bellini, avanza il dubbio che Campo (Campum) possa essere stato un errore dell’emanuense che ebbe a corrompere Carpum in Campum e quindi, sulla scorta di quell’ipotesi credibile, legge l’attuale assetto nel modo seguente: “[…] parte del vecchio corso del Moclena o Secchia [sarebbe] l’odierno Cavata Orientale in quel di Quartirolo e San Marino o, addirittura, il Canale di Carpi, il quale, benché sia scavato dagli uomini, è probabile che gli escavatori abbiano seguito il vecchio alveo dell’antica Moclena o Secchia, tanto più ci pare probabile quando pensiamo che il canale di Carpi ha origine a Rubiera e, arrivato nei pressi di Carpi, non vi entrava come ora, ma vi scorreva a Oriente, forse per il cosiddetto Canalvecchio che scorre per San Marino…”
Il suo attuale corso verso il Po, risale alla prima metà del XIV° secolo quando, nel 1336, con un trattato tra i Pio di Carpi e gli Estensi di Modena, si stipulava di dar libero corso alle acque del Secchia; fino a quell’epoca non si trova nominato nelle carte o nelle memorie di trattati, di confini o di avvenimenti della bassa nel territorio di Mirandola e Mantova. Sul nuovo corso del fiume Secchia, a memoria di quell’accordo, venne a crearsi un nuovo borgo che prendeva il nome di Concordia al quale era affidata dai Pico di Mirandola la tutela di alcuni mulini posti nell’alveo stesso del fiume e azionati dalla sua corrente.
L’attuale stato del fiume Secchia, assieme a tutti i canali derivati, sia di discesa che di risalita, sono il risultato di un incessante quanto indispensabile opera di bonifica per la salvaguardia e buona gestione del territorio [sempre in Carpidiem, vedi alla voce La bonifica nel territorio di Carpi]. Tutta la popolazione rurale ma anche quella cittadina, a vario titolo, partecipava alla vicenda del fiume; di conseguenza, nella logica di appropriazione culturale del territorio, ne conosceva il variegato percorso. Un’appropriazione difficile, poiché il fiume ha prerogative ambivalenti e contraddittorie: è amico ma può essere grande nemico e riservare drammatiche sorprese, specialmente se il suo carattere è sottovalutato. L’assetto delle acque sia per i lavori di trasformazione che di conservazione era conosciuto e ampiamente praticato. Molti dei nostri anziani, nel gergo locale, potevano permettersi di dichiarare di conoscere il territorio “ciàpa per ciàpa” (ciàpa era definita la minima unità poderale coltivabile), e di conseguenza tutto quanto l’attraversava. Nessuno meglio di quanti abitavano nei pressi del fiume era in grado di valutarne il suo stato, di intuirne i possibili pericoli e, quindi, di suggerire di quali interventi abbisognasse. Lo sapevano bene gli Estensi che il 5 settembre del 1699, nel redigere la Regola sopra i lavorieri di Secchia… da osservarsi inviolabilmente, indirizzata alla Congregazione dell’acque di Carpi, al punto quattro, ordinavano: “Occorrendo far lavorieri a Secchia straordinari e nuove operazioni, dovrà l’Ufficiale parteciparne anticipatamente alla Congregazione, la quale dovrà subito convocare tutte le persone perite e pratiche del Fiume Secchia, particolarmente habitanti in quelle vicinanze, e sentire il loro parere, con obbligarle a darlo per iscritto premeditatamente, e non all’improviso, e su’l parere della maggior parte proporre all’A. S. Serenissima l’operazione che s’intenderebbe fare, acciò non si spendi il denaro in lavorieri inutili, o dannosi, che restano meglio conosciuti dagli habitanti presso Secchia più che da qualunque altro.”
Gli sforzi profusi da sempre per avere il governo delle acque davano al rapporto dell’uomo con il fiume un carattere epico; il suo non infrequente sfuggire al controllo lo circondavano di un’aura mitica: necessario, mite, generoso, suscettibile all’azione umana, permaloso, assassino, rabbioso fino alla distruzione, nell’immaginario si faceva quasi persona e, come tale, era raffigurato.
Il fiume Secchia, a sinistra, rappresentato con sembianze femminili così come, anche attualmente,
nella vulgata corrente il fiume è citato al femminile. (da ASMo – anno 1687)
Le alluvioni
Il fiume Secchia a cui viene riconosciuto di essere dono e ragione della floridezza per gli insediamenti che nei secoli si sono formati lungo il suo corso, lo stesso fiume, con le sue piene, è stato portatore di devastanti distruzioni.
L’ultima alluvione che ha pesantemente coinvolto il territorio della provincia di Modena, risale al 1973; ovvero sono trascorsi trent’anni. Le giovani generazioni non ne hanno memoria, i più anziani la interpretano forse improbabile a ripetersi dopo gli interventi di allargamento delle casse d’espansione del Secchia. All’epoca, in un documento redatto dall’Amministrazione Comunale di Modena si leggeva: “Il destino di Modena è affidato esclusivamente alla fortuna. Basti pensare che l’alveo del Secchia è situato ad un livello che supera di tre metri quello del centro cittadino. Una rottura dell’argine destro avrebbe conseguenze incalcolabili per tutta la parte nord/est della città dove sono situati, oltre i prestigiosi monumenti ed opere d’arte, vasti insediamenti industriali e residenziali. Questo è il risultato di decenni di incurie, di abbandono, di disordine in cui vengono lasciati i fiumi; queste sono le conseguenze del dissesto idrogeologico.”
Il quotidiano La Stampa del 23 ottobre 1973 usciva con un articolo a caratteri cubitali: Modena: dieci miliardi per non aver più paura e nel sottotitolo spiegava come: “Ad ogni pioggia gli abitanti temono un’alluvione. Dal 1959 ad oggi si sono avute otto inondazioni, le ultime tre nel giro di un anno…”.
La soluzione al gravissimo problema venne individuata nelle casse d’espansione del Secchia che, dopo la loro realizzazione e sino ad oggi hanno scongiurato altri gravi episodi.
Eppure chi vive nei pressi del fiume Secchia e del canale Lama, non di rado sperimenta il turbamento profondo derivante dalla piena osservata nel suo evolversi rabbioso.
L’intero territorio della provincia modenese è fortemente caratterizzato da manufatti la cui materia prima è attinta dal fiume: massi per la costruzione delle case appenniniche, ciottoli per lastricare strade e piazze, ghiaia, sabbia, mattoni in cotto per l’edilizia, ricavati dalle ampie zone di deposito argilloso. Il fiume Secchia era e continua ad essere un inesauribile, prezioso deposito di ghiaia, ciottoli e sabbia da sempre indispensabili all’edilizia e alla costruzione/manutenzione di strade e piazze. Fino alla prima metà degli anni Cinquanta, l’estrazione e il trasporto di ciottoli, ghiaia e sabbia veniva effettuato dai cosiddetti birocciai. Il mestiere di birocciaio o carrettiere era tra i più disagevoli e pesanti: esposti al caldo estivo e alle intemperie autunnali e invernali su carreggiabili spesso dissestate per cui, anche i percorsi brevi, richiedevano tempi lunghi. Necessariamente obbligati al lavoro di facchinaggio, ricevevano commesse di ghiaia dalle imprese edili e, in quel caso, come descriveva Bruno Galantini, birocciaio a Fossoli, il lavoro era il seguente: “[...] I muratori ci ordinavano la ghiaia e noi l’andavamo a prendere a Campogalliano e ne portavamo un biroccio tutti i giorni... La ghiaia del fiume, prima di trasportarla, si preparava: c’era da picconarla, poi unirla con un badile, prendere via i sassi grossi e, col badile, la caricavamo sul carretto... Il viaggio iniziava alle sei di mattina e si tornava a casa la sera: ci voleva un giorno per un metro cubo di ghiaia. Un buon cavallo portava al massimo venti quintali di ghiaia, un poco più di un metro cubo... lo pagavano venti lire... Noi andavamo sempre a piedi, si teneva la stanga del carretto, perché il cavallo non si sfiancasse: a volte tiravamo più noi che il cavallo... L’inverno non si andava a prendere ghiaia, perché il fiume era pieno e le strade erano cattive, non c’era l’asfalto ma “di caradòun” (carreggiate): due carreggiate che ci si stava appena dentro e, se incrociavi un altro carro che veniva in senso inverso, bisognava trovare un posto per lasciarli passare… Erano strade trafficate, c’erano centinaia di birocciai, una vitaccia. Servivamo di ghiaia anche il Comune e la Provincia, per ghiaiare le strade: il lavoro era suddiviso tra i carrettieri del territori: Allora le strade erano davvero cattive, specialmente fuori dalla Provincia: ricordo che per andare a Rovigo, passando per San Felice, dove c’era il bosco, era tutta una curva e una buca e il cavallo faceva fatica ad andare…”
Lama beach
Il Canale Lama, dove l’acqua scorreva pulita, sino agli anni Sessanta, era la meta di molti Carpigiani che, perlopiù in bicicletta, vi si portavano per pescare, fare il bagno o semplicemente stare in compagnia. Là, sempre e comunque, si incontrava qualcuno di conosciuto con cui scambiare quattro chiacchiere o intavolare lunghi discorsi dai toni sommessi, per non spaventare il pesce di cui era ricchissimo, tanto che, con l’immersione di un semplice secchiello, era possibile recuperare avannotti di sgarze, piccoli pesce gatto, o coloratissimi persici, detti anche pesci orologio, che non di rado arrivavano ad essere imprigionati nelle casalinghe bocce di vetro, in sostituzione dei cosiddetti “pesci rossi”. Il passeggiare sull’argine induceva le rane a tuffarsi in acqua tra le canne, in mezzo le quali libravano abbondanti le libellule. Pochissima la distanza tra un pescatore e l’altro, tale che il corso del canale era punteggiato di galleggianti sui quali l’occhio si focalizzava attendendone l’immersione, a cui seguiva una cauta presa della canna, prima dello strappo deciso e veloce che doveva assicurare il pesce all’esca. Il pescato di quegli anni finiva rigorosamente fritto in padella, in umido o arrosto. In estate ci si recava alla Lama per fare il bagno e là si tenevano corsi di nuoto con tanto di istruttore/bagnino; molti ultraquarantenni si ricorderanno di aver appreso a nuotare dal mitico Ugo Turrini. Lunghe passeggiate da un bacino all’altro dove l’acqua, se non risucchiata dalle pompe della bonifica che in estate la portavano al livello superiore a scopo irriguo, faceva un salto per ricadere a cascata sul livello più basso. Ancora oggi la Lama è un ottimo ambiente di pesca sportiva, sebbene nessuno si assumerebbe la responsabilità di garantire sulla qualità del pescato.
Album fotografico